lettere dal medioriente, palestina.
Tanti anni fa, su di un piccolo blog e prima di cominciare la mia avventura da reporter, condividevo alcune “lettere” che scrivevo dal Medioriente.
Non erano pezzi destinati alla pubblicazione, ma pensieri che dai miei taccuini venivano trasferiti su internet.
Poi, smisi di farlo.
Di condividere, non di scrivere.
Perché, con l’arrivo dei social, tutti avevano qualcosa da dire a riguardo di tutto, qualsiasi scritto finiva impantanato in un’immensa palude. Ora, siamo all’ esasperazione. Inondati da pareri e consigli non richiesti, bombardati dalla tuttologia.
Ci sono alcuni casi però, quando ci si trova di fronte a certi eventi, dove bisognerebbe avere e ritrovare il dovere di condividere.
Articoli, reportage, molto spesso questo lavoro deve accordarsi con spazi, linee editoriali e confinamenti linguistici dati dal fatto che: “la gente non legge più”.
Indipendentemente da questo, da quanto “la gente legga”, ho deciso di tornare a scrivere quelle lettere fuori dall’ ambito giornalistico. Con quello che continua ad accadere in Palestina, dopo più di un anno, mi è impossibile non farlo.
Adesso, mi trovo in Siria. Sono passati pochi giorni dal Natale 2024, sul mio taccuino ho ritrovato uno stralcio scritto un anno fa.
Un racconto di una giornata qualunque nella Palestina occupata.
Un episodio che, purtroppo, non è un’eccezione, ma la quotidianità di un popolo che vogliono annientare.
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“Nablus, dicembre 2023.
Per andare a Ramallah ho preso un taxi condiviso, nella stazione di Nablus. Il furgone è un bel mezzo pulito, comodo, otto posti e di colore arancione vivo.
Mi spezza sempre un po’ il cuore lasciare Nablus, è sicuramente una delle città più belle che io abbia mai visto. Nonostante tutto quello che le stanno facendo, nonostante tutto quello che ci stanno facendo: le bombe di Israele, i loro droni, gli arresti ingiustificati, le botte, le ruspe e i check-point mobili. Nablus è così bella che resiste a tutto quanto.
Normalmente, per Ramallah, ci vorrebbe un’ora di strada, ma gli Israeliani hanno messo così tanti nuovi posti di blocco che siamo costretti a fare decine di deviazioni. È un altro modo, uno dei tanti, per spingere questa gente ad arrendersi e andare via.
I tassisti sono diventati bravissimi a cercare nuove strade. Gli autisti comunicano tra di loro scrivendo le nuove direzioni ovunque: su muri per metà crollati, sui pali della luce, sui container usati per l’immondizia.
Una rete di messaggi whatsapp tiene costantemente informati tutti i tassisti Palestinesi dei nuovi check-point, e di come e dove si muovono le truppe israeliane.
Chissà, se in futuro, il lavoro di questa gente verrà riconosciuto e premiato come atto di resistenza.
Eroi dimenticati di un’assurda quotidianità.
Nel taxi siamo: io, un signore anziano, una studentessa universitaria, e una giovane coppia con una bambina piccola che dovrebbe avere circa tre anni.
Purtroppo, è impossibile evitare tutti i posti di blocco, veniamo fermati. Sono le 22:00.
A guardia, ci sono due soldati israeliani dell’IDF. Sono visibilmente ubriachi. Barcollano, parlano mangiandosi le parole.
Aprono il portellone laterale del taxi. Ci accecano con la luce di un forte riflettore.
<<Nomi>>. Grida uno dei due.
Rispondiamo, uno alla volta, sempre accecati dal faro. Cominciano a improvvisare una canzone, usano i nostri nomi e li condiscono di insulti.
Uno dei due comincia a picchiare sul taxi con un manganello in metallo.
La bambina si spaventa, al vecchio cade il bastone sul fondo del taxi.
<<Che cesso questo coso! Beh, comunque avevo bisogno del cesso>>. Dice l’altro militare.
Si apre i pantaloni, si tira fuori l’uccello e comincia a pisciarci davanti, all’altezza del portellone laterale.
Gli schizzi di urina arrivano addosso al signore anziano, lui stringe il sedile davanti a sé, si morde la lingua imprecando.
La bambina comincia a piangere, sua madre le nasconde la testa portandosela al petto.
Vedo le labbra di suo padre tremare, la sua vena giugulare pulsare e gli occhi che si serrano.
Vorrebbe uscire fuori dal taxi e spaccare la faccia a quel militare ubriaco.
Lo vorrei fare anche io.
Sono combattuto tra la voglia di giustizia e la consapevolezza che metterei questa gente in pericolo.
Metto una mano sulla spalla del giovane padre, gliela stringo forte.
Il militare se lo rimette dentro.
L’ altro acceca il tassista con il riflettore, gli fa delle domande ma senza ascoltare le risposte.
Non possiamo ancora andare via.
Cominciano a sparare in aria, per terra, ridono sguaiatamente. La bambina piange più forte.
Al resto di noi, i minuti sembrano ore.
<<Andatevene>>. Ci dicono.
Mentre ci allontaniamo qualcosa ci colpisce forte, ripetutamente.
Scoprirò poi che sono proiettili di gomma. Ammaccano il retro del taxi, per poco non spaccano il lunotto.
Ma siamo passati oltre.
Per mezz’ora, nessuno di noi ha voglia di parlare. Io ribollo di rabbia.
Mi volto verso la giovane studentessa e le chiedo:
<<Come fate? Come fate a resistere ogni giorno senza impazzire. Come fate a controllare la voglia di reagire?>>
Con molta calma mi risponde:
<< Perché sappiamo che è quello che vogliono. Se reagiamo gli diamo una scusa per metterci dentro.
Accettiamo le umiliazioni perché sono meglio del carcere e delle torture.
E poi, a chi dovremmo rivolgerci?
Nessuno ci difende da quello che accade ogni giorno. Molti di noi, come me, in questa situazione ci sono nati.
Io ho sempre subìto quello che hai visto stasera, e anche molto di peggio.
Sai, in occidente, da voi, si parla degli abusi di Israele solo quando ci sono i morti di mezzo.
Ma nessuno parla di quello che si subisce ogni giorno. Ti rendi conto che io, quando devo pensare di tornare a casa per vedere i miei genitori, devo calcolare anche tutto questo?
Devo pensare che potrei essere arrestata, insultata, picchiata o mandata via. Questo solo perché un soldato è ubriaco, o solo perché così gli va di fare. E tra l’altro, lo fanno in una zona in cui non dovrebbero essere.
Questo è quel poco di Palestina che ci rimane. Ma non basta, devono ancora invadere e presidiare con la forza.
Questo è il punto che noi cerchiamo di spiegare, ogni giorno, al mondo.
Questa quotidianità che fa impazzire la gente fino a causare depressione. Ma di questo, quasi nessuno ne parla mai>>.
Quando arriviamo a Ramallah è già notte.
Per evitare gli altri check-point abbiamo fatto un giro incredibile attraverso colline, campagne e villaggi.
Ci abbiamo messo tre ore.
Mentre cammino verso casa, ripenso a com’è vivere qui.
Ripenso a tutti quelli che, in Italia, definiscono chi reagisce contro Israele: “terrorista”; ma non ha mai vissuto un solo giorno di quello che passa questa gente.
E se in quel taxi ci fosse stata tua figlia?
Che avresti fatto mentre un soldato quasi le pisciava addosso?
Avresti detto: “però, cerchiamo di capire anche le ragioni di Israele?”
Proprio tu, che magari parli di diplomazia, ma perdi le staffe se ti rubano un parcheggio.
E se ci fosse stato tuo nonno che da solo ritorna a casa?
Spaventato a morte, tremante per i colpi dei proiettili e con il piscio sulle scarpe.
Non avresti fatto qualcosa per difenderlo?
E se alla guida di quel taxi ci fosse stato tuo padre?
Tuo padre che cerca di portare dei soldi a casa per farti studiare,
mentre ogni notte rischia di essere picchiato o sparato.
Ho smesso di discutere di Palestina con chi ignora la Palestina.
Perché, se facciamo finta di non vedere queste quotidianità, questi abusi che continuano da quasi 80 anni, sarà impossibile comprendere anche il resto.
Comprendere perché qualcuno possa prendere un’arma e decidere di difendersi,
quando non c’è nessun altro che interviene in suo soccorso."
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È passato un altro anno, migliaia sono ancora i morti e nessuno, nessuno, ha davvero fatto qualcosa per evitarlo. Non avrei mai pensato, dopo tutto questo tempo, di essere ancora qui a ricordare e dover ricordare che cos’è un’occupazione.
Se quello a Gaza era un genocidio un anno fa, oggi cos’è diventato?
Nei giorni scorsi sono stato a Yarmouk, quartiere palestinese in Siria, anche questo totalmente devastato (in questo caso dai bombardamenti di Assad) tra il 2011 e il 2012. In mezzo alle macerie, mentre bevevamo un caffè con alcune persone che stavo intervistando, è apparso un bus giallo.
È un furgoncino di un signore che, in maniera volontaria, porta i bambini a scuola.
Io non so se la mia speranza di vedere una Palestina davvero libera si avvererà fino a quando sarò in vita.
Ma non smetterò mai di sognarla, per quei bambini, e per quelli che verranno ancora.
Spesso, mi si chiede se sia difficile assistere a quello di cui sono testimone.
Mi si domanda: Com’è vedere quello che vedi?
Io, invece, vorrei chiedere a voi: com’ è non farlo?
Com’è non vedere?
Com’è far finta di non vedere…?
SENZA CODICE by ANGELO CALIANNO is licensed under CC BY 4.0