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                                 UN PUNTO BIANCO

2/11/2016

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Una mattina, una delle tante, mentre aspettavo che alcuni dei miei documenti fossero pronti, sorseggiavo del caffè affacciato al balcone della stanza che avevo preso in affitto a Khartoum, capitale del Sudan.
Il frastuono del traffico era quasi diventato un’abitudine e sotto i miei occhi si ripeteva, spesso alla stessa ora, la stessa scena, la strada dove dormivo era nei pressi delle numerose ambasciate europee, raramente ci sono cassonetti dell’immondizia in Africa, in questo caso però, visto il numero di occidentali, ce n’erano alcuni,  venivano svuotati con diversi giorni di ritardo quindi ogni mattina arrivavano bambini e anziani che vi rovistavano dentro cercando qualcosa da mangiare, qualcosa che di certo qualche occidentale aveva buttato.

Non era la prima volta che osservavo scene del genere in Africa ma in questo caso una cosa mi sconvolse più delle volte precedenti, il numero degli anziani, gli anziani che dovrebbero essere un patrimonio di storie ed esperienze, essere tutelati fino alla fine dei loro giorni qui si arrabattavano contendendosi qualcosa con gatti e topi, ho sempre preso il caffè senza zucchero, ma queste scene lo rendevano più amaro che mai…


Una mattina, non reggendo più quell’impotenza, decisi di scendere e comprare un paio di sandwich con uova sode che si vendevano per strada e offrirli insieme con the caldo a un uomo anziano e sdentato che accompagnava alcuni ragazzini, riempirono metà del bicchiere ti the con lo zucchero prima di raccontarmi la loro storia, erano profughi, scappavano dal sud del Kordofan, l’esercito aveva bombardato il loro villaggio punendolo per essere stato dalla parte dei ribelli e così Omàr e altre centinaia di persone, che non sapevano nulla di guerra e petrolio, scapparono qui nella capitale per provare a sopravvivere, una goccia nei quasi sei milioni di profughi in giro per questo sterminato paese, decisi che il Kordofan doveva essere la mia meta successiva.


Per viaggiare intorno al Sudan si ha bisogno di permessi rilasciati dalle autorità, l’autorizzazione per il Kordofan non era possibile ottenerla e così ho fatto una cosa che non si dovrebbe fare, ho barato inserendo di nascosto nel modulo firmato al ministero, una lista di paesi oltre un confine che mi era stato espressamente richiesto di non superare, ma la mia era una buona causa, scoprire da dove scappava tutta quella gente che ogni mattina cercava di sopravvivere sotto il mio balcone.
Il mio viaggio parte così, sono un puntino bianco in mezzo a tantissima gente dalla pelle color pece in bus affollatissimi e appesantiti da tendaggi di velluto come se fosse inverno invece dei 30/40 gradi che mi accompagnano quasi in ogni villaggio.

In mezzo a tanti sorrisi e un’infinita, davvero infinita curiosità da parte dei sudanesi, comincio a capire da cosa scappavano i miei amici a Khartoum, scappano dal nulla, qui non c’è quasi più nulla, c’è sempre stato poco, qualche capra, qualche orto e poche case, alcune capanne di legno e paglia altre solo di lamiera ma da trenta anni a questa parte non c’è più nemmeno la pace, è il confine con il Sud Sudan nel Kordofan del sud, oggi è un confine su una carta ma vallo a spiegare a queste tribù di montagna a chi appartengono ora, va a spiegare a questi capo villaggio che qualcuno ha deciso di tracciare una linea su una mappa e disegnare un confine:

“Da oggi non siete più fratelli, loro sono nel Sud Sudan, voi appartenete al Sudan del nord”,
nella storia questo modo di tracciare i confini non ha mai funzionato, figuriamoci qui.


Viaggiando a sud noto l’aumentare dei check-point, sembra quasi di vedere solo gente armata attorno, alcuni poco più che ragazzini con l’uniforme che gli sta larghissima, tutti questi soldati sono qui per sopprimere i focolai di ribelli che vogliono rendere indipendente anche quest’area, il governo non ci è andato leggero, ha bombardato indiscriminatamente tutto quello che trovava, ribelli, villaggi.

Nel 2013 un simpatico uomo di nome Ahmed Haroun fu mandato qui dal presidente Bashir per fare da governatore e mediare una pace tra governo e ribelli anche con il benestare di qualche cervellone delle Nazioni Unite, si tralasciò il piccolissimo particolare che Haroun era già famoso per crimini contro l’umanità in Darfur nel 2003 per ventidue diversi capi d’accusa, ovviamente la sua lista si  allungò dopo l’esperienza in Kordofan, Haroun ordinò ai suoi soldati:

” non fate prigionieri altrimenti ce li ritroviamo tutti a dar fastidio a Khartoum, mangiateli crudi”, Haroun è stato personalmente responsabile della distruzione delle case di 54.000 persone.

Il quadro da cui sono scappati i profughi via via mi diventa più chiaro, finché un bel giorno l’intelligence e le forze di sicurezza, vedendo il primo uomo bianco in queste zone dal 1992, decidono che non sia più il caso di farmi proseguire, sono trattenuto per sospetto spionaggio e dopo dodici ore d’interrogatorio in varie lingue, di cui solo un paio comprensibili alle mie orecchie, faccio amicizia con il capo della sicurezza, ho il permesso di girare un po’ per i villaggi ma sempre scortato, ho il divieto di fotografare i militari che lì non dovrebbero essere per un cessate il fuoco, ma come spesso succede da queste parti, completamente ignorato.

Non ho solo la scorta a seguirmi ma uno stuolo di bambini e giovani curiosi, una delle domande più frequenti che mi viene posta è  “perché sei venuto? Non c’è niente qui”,
io mi guardo attorno, guardo le montagne di Nuba e gli alberi di ebano, sento l’odore del caffè preparato dalle donne con le guance segnate dalle linee delle loro tribù, cerco di spiegarmi come si faccia e che senso abbia bombardare tutto questo, ma il mio punto di vista qui, il mio bianco punto di vista, conta davvero nulla.


Incontro un uomo di nome Ahmed, mi aveva parlato di lui Omàr a Khartoum e così quando gli porto i suoi saluti, si commuove, 1000 km di distanza tra due amici qui possono diventare anche un addio; Ahmed mi racconta che quando il governo cominciò a bombardare sentì fischiare le bombe prima che arrivassero, prese i suoi quattro figli e sua moglie e si nascose nelle caverne naturali tra le montagne, dopo i bombardamenti del suo villaggio non rimaneva quasi più niente, aveva salvato la sua famiglia e perso tutto il resto, un eroe dimenticato di una dimenticata guerra, così aveva mandato moglie e figli a Khartoum resistendo in questo posto, presidiando il luogo dove ha sempre vissuto come se la sua presenza in qualche modo potesse difendere quel pezzo di terra sperando in giorni migliori, perché come mi ha detto:
 “ se me ne andassi anch’io, non saprei cosa succede e quando non sai qualcosa di un luogo o di una persona, allora quella rischia di scomparire per sempre”.

Forse per questo siamo ancora qui, forse per questo corriamo il rischio di prendere una scheggia di un razzo vagante o cerchiamo di farci arrestare pur di raccontare un luogo, altrimenti quello, come ha detto Ahmed, può scomparire per sempre.


Il mio tempo è scaduto, dopo qualche giorno tra abbracci e sorrisi non sembra nemmeno che io sia stato tutto il tempo in mano alle forze di sicurezza, non ho più il permesso di restare, stanno arrivando le jeep cariche di mitragliatrici e camion carichi di soldati e io tutto questo non dovrei vederlo, non potrei nemmeno scriverlo, ho un confine ora che non posso più superare, è la città di El Obeid, e in ogni luogo appena arrivato, devo comunicare la mia presenza alla polizia, è il piccolo prezzo da pagare per aver “forzato” un po’ i divieti, gli agenti di scorta mi rimettono su un affollato bus pieno di gente dalla pelle color pece e i vestiti sgargianti, torno a essere un piccolo punto bianco in mezzo a tanto calore, un piccolo punto bianco che scompare e diventa parte delle tante storie di quei luoghi, quei luoghi che ho promesso a me stesso di non dimenticare, per non farli più scomparire.


Angelo Calianno

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