All’inizio non avrei voluto scrivere nulla a riguardo, non mi piace fare la retorica su facebook, (non mi piace farla in ogni caso), e poi, a cosa servirà? Ma, sotto suggerimento di un’amica, forse è il caso che io scriva qualcosa a proposito, quanto meno per dare un paio di informazioni in più a riguardo. E’ passato poco più di un anno da quando Silvia Romano è scomparsa, rapita in Kenya. Nessuna notizia chiara, nessun segno (almeno che noi sappiamo) di richiesta di riscatto, ma non solo. Nell’ ultimo anno, il tumultuoso governo, “e mezzo”, italiano, si è prodigato nelle solite promesse, nelle solite battaglie senza nessun senso, (crocefissi, presepi, colore delle strisce pedonali, Leonardo Da Vinci era Italiano? ), ma… Silvia? Negli ultimi mesi gli inquirenti hanno dichiarato che Silvia è viva, che si trova nelle mani di un gruppo islamico in Somalia (Al-Shabab?), ma poi, controllando meglio la notizia, la sua fonte è: “Il Giornale”. Uno dei peggiori, se non il peggiore, quotidiano italiano, anche noto per montare fake news ad arte. La fonte del Giornale sarebbe un funzionario anonimo dei servizi segreti, che ha parlato proprio con il Giornale, questa cosa mi riesce davvero difficile da credere. La verità è che Silvia è sparita dai discorsi, nessun partito politico, nemmeno il Papa, hanno parlato di questa ragazza, nella maniera in cui andrebbe fatta, nell’ ultimo anno. Un caso che ogni giorno dovrebbe tappezzare le edicole, i social (invece delle foto su quando faremo l’albero di Natale o chiedere quanto manca alla prossima estate). Il motivo è, molto probabilmente, perché la sparizione di Silvia è un fatto molto serio e complesso, che dovrebbe essere risolto (o quanto meno provarci) da gente capace, che non parla a vanvera. Ovviamente questo, non è il caso della nostra classe politica, che trova più facile distrarre l’opinione pubblica con inutili battaglie, che affrontare i problemi veri. Allora cosa si fa? Come al solito, le possibilità sarebbero tante, cominciamo dalla pressione politica e mediatica. L’ Italia potrebbe premere sulle autorità locali, minacciando di bloccare il turismo in Kenya e le sue attività economiche lì, ad esempio. Gli operatori italiani, mandano clienti in Kenya, in più di 200 resort, abbiamo in Kenya aziende Italiane, progetti di cooperazione, progetti medici. Ma come al solito, non importa, non importa perché siamo incapaci, perché ci pieghiamo sempre di fronte ai soldi, perché:” non ne vale la pena”. E così in Kenya ci andiamo a fare i reality, dopo aver sradicato i Masai dalla loro vera cultura, trasformandoli in legionari da selfie davanti al Colosseo. E se vi dicessi che molte della agenzie turistiche locali, in Kenya, pagano la tangente ad Al-Shabab per fare i Safari e non essere attaccati? Certo, di questo non si parla… Sapevate che l’Europa, in particolare Olanda e Gran Bretagna, comprano ogni anno circa 700 mila tonnellate (ripeto, 700 mila tonnellate) di fiori, in particolare rose, dal Kenya? Sapevate che la maggior parte di questi fiori vengono venduti in Italia? A San Remo, durante il festival e per San valentino. Sapevate che, oltre lo sfruttamento dei lavoratori, anche queste aziende locali di fiori, pagano a loro tangente ad Al-Shabab? Insomma, a me sembra che il nostro peso economico nel Paese sia abbastanza per far muovere le acque. Se cominciassimo a boicottare e far boicottare il Kenya, fin quando non avremo risposte chiare? Ma preferiamo non vedere, non parlare. Abbiamo paura degli attentati terroristici in Medioriente, però in Qatar (uno dei principali fornitori delle armi all’ ISIS) ci andiamo a fare il gran premio di Formula Uno, e ci mandiamo il, per fortuna Ex, ministro dell’Interno. Condanniamo il modo di trattare le donne negli Stati Islamici, però andiamo in vacanza a Dubai e ospitiamo uno dei principi Sauditi a Matera. E allora? Non sarà anche un po' colpa nostra? Della nostra pigrizia e Incoerenza? Allora cosa si può fare? Prendere una posizione chiara, non essere più la Nazione dove: “puoi fare quello che vuoi, a cui fare quello che vuoi, tanto sono italiani”. E noi? Forse cominciare a rompere le scatole seriamente, le proteste, la gente in piazza, sono cose che danno speranza, ma senza un’azione quotidiana e continua. Parliamo di Silvia, parliamone sempre e se comprate un fiore, chiedetene la provenienza, se viene dal Kenya, lasciatelo lì, specificando il perché lo fate, che lo sappiano le aziende, che lo sappiano le multinazionali, e magari quel fiore, conservatelo nella mente, per Silvia. Amnesty ha lanciato una campagna per la liberazione di Silvia Romano, per fare pressione sulle autorità locali, senza supporto, Amnesty può fare poco, uniamoci, almeno una volta qui: https://www.amnesty.it/liberiamo-silvia-romano/ Il Premio Nobel per la pace, Desmond Tutu scrisse: L’Europa divenne ricca perché sfruttò l’Africa; e gli africani lo sanno.
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Nella vita di ogni musicista o appassionato di musica c’è sempre un momento particolare che ha segnato il suo gusto, il suo modo di suonare, ascoltare e per qualche anno, anche di vivere. L’ impronta si forma ad una certa età, spesso durante l’ adolescenza, quando cominci a prendere coscienza del mondo, dei tuoi gusti, di quello che ami o odi, in quel tormentato momento a volte spunta fuori qualcuno che canta e suona esattamente quello che avevi bisogno di ascoltare. Io sono stato adolescente negli anni ’90, tra i miei 14 e i 18 anni, tra il 1994 e il 1998, la musica cambiò e tanto, e non è solo una frase fatta, le cose cambiarono davvero, avere quell’età in quegli anni è stato qualcosa di unico. Venivamo fuori da un periodo, gli anni ’80, fatto di tastiere a tracolla e trucchi esagerati, quasi tutti cantavano in playback, i live in tv erano più delle esibizioni senza né capo né coda, le rockstar esibivano acconciature a cui servivano intere bombolette di lacca per stare su. Si usava la batteria elettronica e suoni elettronici per costruire un pezzo anche se non sapevi suonare, pochi gruppi si salvarono da quel tormentato decennio, anche i testi non avevano quasi più significato, dopo aver toccato il fondo, arrivarono loro, quelli del grunge di Seattle. Improvvisamente qualcuno aveva dato voce ad alcuni tormenti rimasti ingabbiati per anni nei giovani di allora, il disadattamento, il non volersi conformare ai canoni che il mondo di quegli anni ci chiedeva. E poi qualcuno aveva anche ricominciato a suonare davvero, suonando gli strumenti nudi e crudi così com’erano; un’ altra novità cambiò il mondo della musica: arrivò MTV, e per la prima volta, anche se minorenni, potevamo vedere dei concerti rock, anche se in tv. Rimanevamo svegli la notte per registrare gli Unplugged su cassettone VHS, rimanevamo svegli per fermare il rumorosissimo video registratore in modo da togliere le pubblicità, così da avere il concerto perfetto senza pause. Non sono mai stato, nemmeno allora, un grande fan dei Nirvana, troppo di moda, troppe ragazzine sbavavano dietro le parole di Cobain, e io che con le mode ci ho sempre fatto a botte, venni catturato da suoni che all’ inizio ai più sembravano troppo aspri, quelli dei Soundgarden, ancora prima dei Mother Love Bone e in seguito degli Alice in Chains e Pearl Jam. Cominciammo anche noi 16enni a vestirci con spesse camice di flanella a quadri e anfibi, cominciammo a suonare i primi accordi di Black Hole Sun. In quegli anni il grunge aveva delle voci ben distinte, e quasi tutti i progetti musicali di quegli anni a Seattle ruotavano attorno ad un timbro unico, quello di Chris Cornell. Pochi rocker prima di lui avevano raggiunto la sua estensione vocale, Robert Plant e a tratti Roger Daltrey, ma Cornell andava oltre, era anche un bravissimo compositore e un gran conoscitore di musica, ti faceva vibrare lo stomaco quando cantava sulle ottave basse e ti prendeva a schiaffi con le ottave alte. Quando sono scomparsi Reed, Bowie, Lenny, Prince, il vuoto culturale e musicale è stato sicuramente immenso, ma non ho scritto nulla in quel caso, nessun pensiero, tanto, ce ne sarebbero stati a milioni. Ma per Chris Cornell non sono riuscito a trattenermi, lui con i Soundgarden come Vedder con i Pearl Jam, hanno accompagnato i momenti più importanti di qualsiasi cambiamento io possa aver avuto, e ancora oggi la sua voce mi ricorda tutto quel percorso. Il repertorio di Cornell è enorme, e io invito tutti a scoprirlo, c’ è una canzone in particolare che lui scrisse per i Temple of the Dog, questo gruppo si formò nel 1990 per fare omaggio a Andrew Wood (altro personaggio incredibile, morto giovanissimo, the Man of Golden Words, l’uomo dalle parole dorate, pioniere anche lui del grunge), cantante dei Mother Love Bone. Cornell dedicò a Wood una meravigliosa canzone, che tristemente oggi si adatterebbe perfettamente anche alla sua dipartita: Say Hello to Heaven. Say hello to heaven Chris… SAY HELLO TO HEAVEN
Please, mother mercy Take me from this place And the long-winded curses I hear in my head The words never listen And teachers, oh they never learn My warmth from the candle Though I feel too cold to burn He came from an island Then he died from the street And he hurt so bad like a soul breakin' But he never said nothin' to me, yeah A'say hello to heaven, heaven, heaven Say hello to heaven, heaven, heaven, yeah New like a baby, lost like a prayer The sky was your playground But the cold girl was your bed Ooh, I said, poor Stargazer She's got no tears in her eyes But fool like a whisper She knows that love heals all wounds with time Now it seem like too much love Is never enough, yeah, you better seek out Another road 'cause this one has ended abrupt, oh A'say hello to heaven, heaven, heaven Say hello to heaven, heaven, heaven, yeah I, I never wanted To write these words down for you With the pages of phrases Of things we'll never do Hey, so I blow out, out the candle and I put you to bed Since you can't say to me now How the dog broke your bone There's just one thing left to be said A'say hello to heaven, heaven, heaven Say hello to heaven, heaven, heaven, yeah… Nell’ era dei social sono così tante le informazioni che ci bombardano che spessissimo molte notizie, importantissime o di valore storico, passano inosservate a vantaggio di altre più banali. Siamo tutti bravi a metterci una bandiera sul profilo facebook, sempre che sia una bandiera che ci piaccia, che stia bene con la nostra foto o che sia di moda. Il 25 dicembre nelle acque del Mar Nero si schiantava un aereo militare, un Tu-154, l’ aereo aveva a bordo 64 dei 186 membri del coro dell’ Armata Rossa. La notizia è passata con una velocità tale da non lasciare quasi traccia, per anni “il nemico rosso” della guerra fredda ha fatto fatica ad imporsi come simpatico alle nazioni occidentali, spesso per una propaganda molto ben riuscita. Oggi vediamo gli splendidi effetti del fomentare l’ odio, una parte di buon cuore che accoglie e l’ altra che costruisce un muro. Anche il coro dell’ Armata Rossa ha visto un muro, quello di Berlino, nel 1990 ne celebrò la caduta in un concerto insieme a Roger Waters. La notte del 25 dicembre i 64 artisti stavano volando in Latakia, tra Siria e Turchia, per cantare a favore delle popolazioni di Aleppo. Per 90 anni questi soldati hanno viaggiato e cantato in zone di guerra, prima per sollevare il morale delle truppe sovietiche, poi per beneficenza alle popolazioni colpite dai conflitti. Gli artisti principali del coro oggi non ci sono più, il coro sarà da ricostruire ripartendo da quei fortunati che sono rimasti a terra. 64 voci e storie sono passate solo un giorno dai nostri social, mettersi una bandiera sovietica sul profilo di questi tempi forse poteva confondere un po’ le idee e così quasi nessuno ha ricordato questi ragazzi, lo facciamo noi mostrando l’ ironia di questi soldati che avevano deciso di cambiare l’ immagine rigida e stereotipata che si ha dell’ Armata Rossa, lo facciamo condividendo uno dei loro video più divertenti. Il pensiero va alle loro voci, ai loro sorrisi e balli più o meno aggraziati, con la speranza che il mondo li possa ricordare al pari di tutte le tragedie che di recente abbiamo vissuto, perché quando si perdono esseri umani così, non esiste est, non c’è ovest e non ci sono muri, solo un grande vuoto a noi gente dalla memoria sempre troppo corta.
Karada è una zona del centro di Baghdad, è sempre stata una zona abbastanza normale e tranquilla, se negli ultimi anni della capitale irachena di tranquillità si può parlare, è un’area piena di caffè, bazar e negozi.
Quello che molta gente ignora è che, nonostante guerre e conflitti, le persone continuano a uscire, andare al cinema, a mangiare fuori, a raccogliersi tutti attorno ad uno schermo per guardare una partita come ieri sera, anche a Baghdad si guardava la partita Germania - Italia, la differenza è che in questi luoghi qualcuno o qualcosa ti fa ricordare dove sei e cosa accade e ti fa dimenticare i pochi momenti di pace. Il periodo del Ramadan nei paesi musulmani è sempre molto delicato, si è sempre un po’ più tesi durante il giorno e con poche forze, le ore poi che precedono l’alba, quelle di festa e raduno, sono i momenti più pericolosi perché tanta gente insieme nello stesso luogo rappresenta un facile bersaglio. Questo è successo tra la notte di ieri, sabato, e stamane, domenica. Attorno a mezzanotte i centri commerciali erano pieni di famiglie, bambini che giocavano, persone che cercavano un po’ di refrigerio dai condizionatori d’aria e che guardavano una partita di calcio, qui un kamikaze dell’Isis si è fatto saltare in aria mentre guidava un camion frigorifero pieno di esplosivo, è scoppiato l’inferno. L’attentato è una risposta alla presa di Falluja, città riconquistata dall’esercito iracheno poco tempo fa, i sunniti dell’ISIS, vendette e rappresaglie a parte, da tempo compiono attentati contro i quartieri iracheni a maggioranza sciita. Le stragi non fanno distinzione di religione, credo, età, a ora i morti sono 126, venticinque di loro erano bambini usciti con i loro genitori per festeggiare la fine del digiuno giornaliero, stamattina, al centro di Karada, al posto della gente che passeggia e guarda i negozi c’è un enorme cratere fumante lasciato dall’esplosione, è pieno di donne e uomini che piangono e urlano. Per alcuni è solo una notizia su un giornale, un’ansa che si mischia con quelle di una partita, una notizia di 30 secondi in una radio che si confonde con il rumore delle onde per chi è andato al mare, un post su facebook tra milioni di selfie, per questa gente invece, per queste madri, per questi padri, fratelli, figli, da oggi le notizie non hanno più importanza, l’unica cosa che vedono è un buco nell’asfalto dove prima c’erano i propri cari. Io non credo nella pace da un giorno all’altro, non credo che il mondo si cambi in pochi mesi o con qualche trattato, ho visto e scritto di troppi scenari tragici per poter ancora credere in quest’ illusione. Ho sempre creduto nell’evoluzione dell’animo umano che ahimè, è maledettamente lenta, lentissima, ci vorranno secoli forse per non sentire più quelle urla strazianti di genitore cui è stato ucciso un figlio, ma nella piccolissima storia umana, l’importante sarà conquistare quel giorno. Non è oggi quel giorno, guardateci, la gente litiga per una partita, i presidenti litigano per uscire dentro o fuori da un’unione piena di persone che non hanno mai sopportato. La nostra quotidianità ci intristisce, ci fa vivere con un malumore addosso tanto pesante da prendercela con il primo che incontriamo, sfuriamo la nostra rabbia contro qualcuno che a sua volta lo farà con qualcun altro, in un circolo vizioso di odio. Chissà se oggi raccontassimo i nostri malumori alla gente che ora sta piangendo a Karada, cosa ci risponderebbero. L’ex presidente italiano Sandro Pertini una volta scrisse: “Se i popoli della terra, coralmente, potessero esprimersi, al di sopra di ogni differenza ideologica, politica, di ogni razza, al di sopra di ogni credo, e di ogni differenza di credo religioso, tutti i popoli della terra si pronuncerebbero per la pace contro la guerra”. Testo:Angelo Calianno Foto: Al Jazeera Una mattina, una delle tante, mentre aspettavo che alcuni dei miei documenti fossero pronti, sorseggiavo del caffè affacciato al balcone della stanza che avevo preso in affitto a Khartoum, capitale del Sudan. Il frastuono del traffico era quasi diventato un’abitudine e sotto i miei occhi si ripeteva, spesso alla stessa ora, la stessa scena, la strada dove dormivo era nei pressi delle numerose ambasciate europee, raramente ci sono cassonetti dell’immondizia in Africa, in questo caso però, visto il numero di occidentali, ce n’erano alcuni, venivano svuotati con diversi giorni di ritardo quindi ogni mattina arrivavano bambini e anziani che vi rovistavano dentro cercando qualcosa da mangiare, qualcosa che di certo qualche occidentale aveva buttato. Non era la prima volta che osservavo scene del genere in Africa ma in questo caso una cosa mi sconvolse più delle volte precedenti, il numero degli anziani, gli anziani che dovrebbero essere un patrimonio di storie ed esperienze, essere tutelati fino alla fine dei loro giorni qui si arrabattavano contendendosi qualcosa con gatti e topi, ho sempre preso il caffè senza zucchero, ma queste scene lo rendevano più amaro che mai… Una mattina, non reggendo più quell’impotenza, decisi di scendere e comprare un paio di sandwich con uova sode che si vendevano per strada e offrirli insieme con the caldo a un uomo anziano e sdentato che accompagnava alcuni ragazzini, riempirono metà del bicchiere ti the con lo zucchero prima di raccontarmi la loro storia, erano profughi, scappavano dal sud del Kordofan, l’esercito aveva bombardato il loro villaggio punendolo per essere stato dalla parte dei ribelli e così Omàr e altre centinaia di persone, che non sapevano nulla di guerra e petrolio, scapparono qui nella capitale per provare a sopravvivere, una goccia nei quasi sei milioni di profughi in giro per questo sterminato paese, decisi che il Kordofan doveva essere la mia meta successiva. Per viaggiare intorno al Sudan si ha bisogno di permessi rilasciati dalle autorità, l’autorizzazione per il Kordofan non era possibile ottenerla e così ho fatto una cosa che non si dovrebbe fare, ho barato inserendo di nascosto nel modulo firmato al ministero, una lista di paesi oltre un confine che mi era stato espressamente richiesto di non superare, ma la mia era una buona causa, scoprire da dove scappava tutta quella gente che ogni mattina cercava di sopravvivere sotto il mio balcone. Il mio viaggio parte così, sono un puntino bianco in mezzo a tantissima gente dalla pelle color pece in bus affollatissimi e appesantiti da tendaggi di velluto come se fosse inverno invece dei 30/40 gradi che mi accompagnano quasi in ogni villaggio. In mezzo a tanti sorrisi e un’infinita, davvero infinita curiosità da parte dei sudanesi, comincio a capire da cosa scappavano i miei amici a Khartoum, scappano dal nulla, qui non c’è quasi più nulla, c’è sempre stato poco, qualche capra, qualche orto e poche case, alcune capanne di legno e paglia altre solo di lamiera ma da trenta anni a questa parte non c’è più nemmeno la pace, è il confine con il Sud Sudan nel Kordofan del sud, oggi è un confine su una carta ma vallo a spiegare a queste tribù di montagna a chi appartengono ora, va a spiegare a questi capo villaggio che qualcuno ha deciso di tracciare una linea su una mappa e disegnare un confine: “Da oggi non siete più fratelli, loro sono nel Sud Sudan, voi appartenete al Sudan del nord”, nella storia questo modo di tracciare i confini non ha mai funzionato, figuriamoci qui. Viaggiando a sud noto l’aumentare dei check-point, sembra quasi di vedere solo gente armata attorno, alcuni poco più che ragazzini con l’uniforme che gli sta larghissima, tutti questi soldati sono qui per sopprimere i focolai di ribelli che vogliono rendere indipendente anche quest’area, il governo non ci è andato leggero, ha bombardato indiscriminatamente tutto quello che trovava, ribelli, villaggi. Nel 2013 un simpatico uomo di nome Ahmed Haroun fu mandato qui dal presidente Bashir per fare da governatore e mediare una pace tra governo e ribelli anche con il benestare di qualche cervellone delle Nazioni Unite, si tralasciò il piccolissimo particolare che Haroun era già famoso per crimini contro l’umanità in Darfur nel 2003 per ventidue diversi capi d’accusa, ovviamente la sua lista si allungò dopo l’esperienza in Kordofan, Haroun ordinò ai suoi soldati: ” non fate prigionieri altrimenti ce li ritroviamo tutti a dar fastidio a Khartoum, mangiateli crudi”, Haroun è stato personalmente responsabile della distruzione delle case di 54.000 persone. Il quadro da cui sono scappati i profughi via via mi diventa più chiaro, finché un bel giorno l’intelligence e le forze di sicurezza, vedendo il primo uomo bianco in queste zone dal 1992, decidono che non sia più il caso di farmi proseguire, sono trattenuto per sospetto spionaggio e dopo dodici ore d’interrogatorio in varie lingue, di cui solo un paio comprensibili alle mie orecchie, faccio amicizia con il capo della sicurezza, ho il permesso di girare un po’ per i villaggi ma sempre scortato, ho il divieto di fotografare i militari che lì non dovrebbero essere per un cessate il fuoco, ma come spesso succede da queste parti, completamente ignorato. Non ho solo la scorta a seguirmi ma uno stuolo di bambini e giovani curiosi, una delle domande più frequenti che mi viene posta è “perché sei venuto? Non c’è niente qui”, io mi guardo attorno, guardo le montagne di Nuba e gli alberi di ebano, sento l’odore del caffè preparato dalle donne con le guance segnate dalle linee delle loro tribù, cerco di spiegarmi come si faccia e che senso abbia bombardare tutto questo, ma il mio punto di vista qui, il mio bianco punto di vista, conta davvero nulla. Incontro un uomo di nome Ahmed, mi aveva parlato di lui Omàr a Khartoum e così quando gli porto i suoi saluti, si commuove, 1000 km di distanza tra due amici qui possono diventare anche un addio; Ahmed mi racconta che quando il governo cominciò a bombardare sentì fischiare le bombe prima che arrivassero, prese i suoi quattro figli e sua moglie e si nascose nelle caverne naturali tra le montagne, dopo i bombardamenti del suo villaggio non rimaneva quasi più niente, aveva salvato la sua famiglia e perso tutto il resto, un eroe dimenticato di una dimenticata guerra, così aveva mandato moglie e figli a Khartoum resistendo in questo posto, presidiando il luogo dove ha sempre vissuto come se la sua presenza in qualche modo potesse difendere quel pezzo di terra sperando in giorni migliori, perché come mi ha detto: “ se me ne andassi anch’io, non saprei cosa succede e quando non sai qualcosa di un luogo o di una persona, allora quella rischia di scomparire per sempre”. Forse per questo siamo ancora qui, forse per questo corriamo il rischio di prendere una scheggia di un razzo vagante o cerchiamo di farci arrestare pur di raccontare un luogo, altrimenti quello, come ha detto Ahmed, può scomparire per sempre. Il mio tempo è scaduto, dopo qualche giorno tra abbracci e sorrisi non sembra nemmeno che io sia stato tutto il tempo in mano alle forze di sicurezza, non ho più il permesso di restare, stanno arrivando le jeep cariche di mitragliatrici e camion carichi di soldati e io tutto questo non dovrei vederlo, non potrei nemmeno scriverlo, ho un confine ora che non posso più superare, è la città di El Obeid, e in ogni luogo appena arrivato, devo comunicare la mia presenza alla polizia, è il piccolo prezzo da pagare per aver “forzato” un po’ i divieti, gli agenti di scorta mi rimettono su un affollato bus pieno di gente dalla pelle color pece e i vestiti sgargianti, torno a essere un piccolo punto bianco in mezzo a tanto calore, un piccolo punto bianco che scompare e diventa parte delle tante storie di quei luoghi, quei luoghi che ho promesso a me stesso di non dimenticare, per non farli più scomparire. Angelo Calianno Questo post è dedicato ad un amico, Senza Codice supporta lui ed il suo progetto dopo i tragici eventi delle ultime settimane, torna presto a far volare la tua “Surly Baby” fratello. Ci sono gesti, progetti e azioni che uomini e donne compiono sfidando le proprie capacità fisiche, confini precostituiti, e quello che a molte persone sembra buon senso, Yashar Khudiyev , un ragazzo originario dell’ Azebaijan, è una di queste persone, ho avuto la fortuna di incontrarlo in Sudan a novembre, siamo stati insieme prigionieri della burocrazia per qualche tempo cercando di ottenere dei permessi per accedere a terre dove normalmente a nessun visitatore è permesso andare (a parte qualche permesso speciale), e dove altri non si sognerebbero nemmeno di passarci accanto. Ho visto Yashar l’ ultima volta a Khartoum, io sono partito per il Kordofan lui per il Sud Sudan…in bicicletta, si perché Yashar stava attraversando tutta l’ Africa in bici per raggiungere il Sud Africa, per il suo progetto Cycling for Democracy in Africa. Entrambi siamo riusciti (con qualche stratagemma) ad ottenere i relativi permessi e così Yasher in bici ha attraversato un luogo che a molti fa rabbrividire, il Sud Sudan, come sempre visto dall’ interno tutto è molto diverso, Yasher mi ha scritto che nonostante difficoltà, spari, interrogatori dell’ intelligence e gente armata ovunque, tutti con lui sono stati sempre splendidamente ospitali e dopo varie peripezie la gente lo ha rincorso solo per farsi fotografare con lui, quei volti sorridenti e armati sono rimasti nel cuore di questo ragazzo che con l’ animo più leggero e sollevato, da quella che doveva essere la parte più difficile del suo viaggio, si è rimesso in strada. Il progetto di Yashar era quello di portare, paese per paese, un messaggio di uguaglianza e democrazia ricordando che non importa quanto diverse siano le nostre razze, lingue ed etnie, tutti alla fine abbiamo gli stessi sogni e desideri, il suo viaggio è stato costellato di amici, ospiti e compagni di cene e chiacchierate, questi viaggi però a volte nascondono insidie che non ci si aspetta proprio dove non si pensava di trovarle. Il 28 dicembre mentre Yashar si dirigeva dal Sud Sudan verso il confine keniano è stato attaccato da un gruppo di ribelli, lo hanno pesantemente picchiato e privato di tutto, documenti, carte e bicicletta, lo hanno poi trascinato all’ interno della jungla e lì preso a sassate. Per il tempo in cui è rimasto cosciente Yashar ha contato più di 10 pesanti pietre che gli hanno aperto il cranio, quando i ribelli hanno visto la sua testa hanno pensato che fosse morto e abbandonato lì, tra sangue e sassi. Ma come ha detto Yasher “forse non era tempo di morire lì” e così semi-cosciente, con la testa aperta da un lato, grondante sangue, un braccio e varie costole rotte, Yasher si è svegliato, ha bevuto da una pozza di acqua sporca, mangiato bacche selvatiche e dopo un giorno è riuscito a raggiungere una strada crollandovi su. Qui la fortuna ha ripreso a girare dalla sua parte, due assistenti medici che passavano per quella strada lo hanno trovato e caricato su di un pick-up portandolo nell’ ospedale di Kapoeta, qui “i suoi due eroi” come li chiama lui, Simon e Felix, lo hanno lavato, gli hanno disinfettato le ferite e messo 10 punti in testa, hanno dormito per notti nella sua stanza per accertarsi delle sue condizioni e quando nella città si è saputo di Yashar c’è stata una gara di solidarietà, alcune ragazze di una scuola hanno raccolto soldi per portargli pollo e patate e come loro tantissime persone hanno fatto di tutto per fargli fare ogni giorno un pranzo ed una cena decenti. Yashar è vivo, ha un braccio e alcune costole rotte ed è diventato mezzo sordo da un orecchio, ma, come mi ha scritto : “ cammino, parlo e sorrido”, e per noi, i suoi amici, la cosa più importante è che sia vivo. Fino a qualche giorno fa il morale di Yashar era turbato solo da una cosa, non poter continuare il suo viaggio e progetto, senza soldi e documenti dovrà tornare a casa, questo fino a ieri, quando la polizia Sud Sudanese dopo 12 giorni di ricerche intense ha trovato bicicletta e passaporto, questo ha dato nuova speranza a Yashar perché forse, non lo sa ancora, il suo viaggio non è ancora finito… Ho visto tanti luoghi negli ultimi 14 anni, alcuni brutali, ho visto spesso scene di violenza gratuita, arti tagliati da machete, animali e uomini frustati fino alla morte, esseri umani uccisi da pietre che con un rumore sordo distruggono gli organi interni dilagando in pozze di sangue, ho visto gesti dettati da una rabbia o una furia animalesca per noi molto difficili da comprendere, proprio in questi luoghi però è più facile notare l’ umanità e i grandi gesti di solidarietà proprio perché si contrappongono a questa cattiveria, questo post e la storia di Yashar sono dedicati a tutti quelli che riescono a lottare contro barbarie e violenza usando come armi solo la propria umanità e gentilezza, se oggi riusciamo a scrivere queste storie e tornare indietro per raccontarle è solo grazie all’ aiuto e protezione di queste splendide persone. Angelo Calianno Ho aspettato un po’ per scrivere questo post, in realtà sono rimasto in dubbio sul farlo fino all’ ultimo, perché qui ci siamo sempre occupati di raccontare realtà che si conoscono meno oppure di differenti versioni di una storia.
Questa volta però è difficile stare in silenzio e così uso la sezione “estemporanea” del blog, per scrivere questo pensiero che forse a qualcuno potrà sembrare duro. La storia la conosciamo, è quella di Aylan di Kobane, tristemente trovato morto su una spiaggia turca durante un viaggio e una speranza che doveva portare lui e la sua famiglia in un posto più sicuro. Ho aspettato a parlarne perché sapevo che, dopo il clamore iniziale, le iniziative e le foto di dubbio gusto, ce ne saremmo dimenticati, una delle tante foto e notizie che tra un anno nessuno si ricorderà, per questo ho deciso di scrivere e rimandare questo post ogni anno nel suo anniversario. Io ahimè non sono credente, non credo in Dio, non credo nei Santi, non credo che un bambino morto in una maniera orribile, per premio diventi un angelo, no. Troppo facile crederlo e anche troppo comodo, un pensiero che smorza il dolore e lo rende un po’ più sopportabile, il problema è che invece dovremmo capire davvero cosa stia accadendo senza trovare inutili consolazioni, tutti, credenti e non e sentirlo davvero questo dolore. E’ più facile credere che da un cadavere ne esca un’ anima e diventi un angelo, io però credo in quel che vedo, in quello che ho visto. Forse chi strumentalizza questa storia, chi si serve della foto di Aylan per aumentare l’ audience, chi ci fa i disegni attorno, forse tutte queste persone non hanno mai visto un cadavere o quanto meno, non in queste situazioni. La verità è che Aylan si è spento, è morto, subito dopo la morte ogni parte del suo corpo si è irrigidita, prima la mascella, poi i gomiti e in seguito le ginocchia, dopo 8 ore nessuno dei suoi giunti era più flessibile e il suo corpo era livido e gonfio. Malgrado quello che la gente si potrà inventare dopo per nascondere la vergogna, è questo che è successo a questo povero bambino, quello non dovrebbe mai succedere a 3 anni…mai. C’è tanto che non si dice e per molte cose tutti ne siamo responsabili; in questi giorni controllavo le statistiche dei post che più sono stati visualizzati e condivisi sui social network in Italia, in un mondo normale forse avremmo tutti dovuto tacere dei nostri miseri problemi e paranoie adolescenziali e ricordare, non dimenticare, già in un mondo normale. Nel nostro invece la notizia della morte di Aylan, suo fratello Galip e la storia della sua famiglia sono state superate, maggiormente commentate, condivise e discusse dalle immagini di Johnny Depp grasso, unto e con i denti guasti, se questo è il nostro parametro di cultura e informazione, forse è l’ ora che cominciamo a chiederci perché la nostra vita non va esattamente come volevamo. Il 27 agosto in Sicilia sono arrivate le salme di 52 migranti morti asfissiati in una stiva, erano finiti i sacchi per cadaveri, non c’era posto negli obitori, così si è dovuto prendere un furgone refrigerato per uso alimentare per conservare questi uomini, donne e bambini in attesa che si trovasse qualcosa, stanno finendo i sacchi per cadaveri un po’ ovunque e quindi si improvvisa come si può, ma anche a questo, quasi nessuno ci pensa. Le Nazioni Unite vigilano, le autorità religiose pregano, gli Stati del nord Europa aprono, l’ Italia accoglie, su come e perché queste persone devono arrivare al primo di tutti questi passaggi però, nessuno si interessa. Una domanda mi tormenta da mesi: com’è è possibile che un povero disperato che fugge da una guerra, riesca a trovare un numero di telefono, un contatto di un farabutto con una barca, pagare tutti i suoi risparmi e partire nel giro di poche settimane, ma nessuna delle intelligence del mondo riesce ad arrestare un solo trafficante di persone? La risposta penso che ce la siamo data un po’ tutti, io l’ Africa, il Magreb, il Medioriente li conosco molto bene e vi assicuro che per trovare un contatto che ti porti clandestinamente da qualche parte bastano un paio di telefonate o qualche domanda in giro nelle città principali, ma certo poi, le Nazioni Unite vigilano, le autorità religiose pregano, gli Stati del nord Europa aprono, l’ Italia accoglie, prima di tutto questo però, la gente muore. No, non credo che tutte queste persone diventeranno angeli, non gli si trova nemmeno un posto per far decomporre il corpo in santa pace, figuriamoci il paradiso, no, non credo che Aylan e Galip siano in cielo, ma non metterò la foto della loro morte, posterò quella del loro sorriso, mi piace pensare che non si siano accorti di nulla, che non abbiano sofferto. No, non credo agli angeli ma credo a quel che vedo, e penso: se ci dessimo da fare per salvare vite umane prima che sia troppo tardi? Se smettessimo di ignorare? Se usassimo gli infiniti mezzi che abbiamo a disposizione per fare qualcosa di concreto invece che passare il tempo a pensare che i nostri siano veri problemi? E se i bambini li salvassimo qui sulla terra? Forse così, non ci sarebbe più bisogno di credere agli angeli… Angelo Calianno Il lavoro del Reporter Free lance è spesso qualcosa che sfugge a molte persone, pochi sanno davvero di cosa si tratta e sopratutto quanti ce ne siano intorno al mondo a raccontare quello che accade. In questi giorni tragicamente questo mestiere è salito alla ribalta per le esecuzioni ai danni dei giornalisti da parte dell ISIS ( Islamic State of Iraq and the Levant), ultima esecuzione quella di Steven Sotloff. Si conosce il nome di questi uomini e ragazzi che con coraggio raccontano quello che accade in angoli sperduti del mondo solo quando muoiono, è accaudo con la morte di Arrigoni, con la morte di James Foley ed ora con quella di Sotloff. A me piacerebbe che le storie di chi come noi scrive di luoghi dimenticati del mondo arrivassero prima della morte, mi piacerebbe che l' informazione desse più spazio ai liberi reporter senza ricordarsi di loro solo quando il giornalista stesso diventa una notizia. Voglio ricordare il lavoro di Steven Sotloff, Americano Ebreo Sotloff parlava Inglese, ebraico ed arabo, per anni ha seguito gli scontri dell' Arab Spring, proprio lì ha comnciato la sua carriera. Grande conoscitore dello Yemen, che usava spesso come base di partenza, venne rapito ad Aleppo in Syria nel 2013 e ieri il nuovo video che mostra la sua esecuzione, qui potete vedere parte del video: Steven Sotloff aveva 31 anni, come lui siamo a centinaia i reporter free lance impegnati a mostrare quello che accade intorno al mondo, non aspettate di vedere questi orrori per conoscere quello che raccontiamo.
Angelo Calianno A tutti i viaggiatori e le viaggiatrici,
come promesso provo a tenere una sorta di diario di viaggio sul sito Senzacodice.com, non posso ancora postare fotografie perche' come facilmente immaginerete ho qualche difficolta' di connessione ad internet (nonche' una seria mancanza di accenti nelle tastiere africane, perdonatemi se trovere quindi apostrofi sostitutivi). Scrivo da Harar cittadina nell' est dell' Etiopia in direzione del Somaliland che un passo alla volta mi appresto a raggiungere. Harar e' una citta' unica nel suo genere, un' aria mediorientale nell' architettura ma composta da diverse razze africane: Etiopi, Somali, nomadi dal sud. Ieri sera qui abbiamo assistito ad uno spettacolo unico, Iene che scendono dalle montagne per sfamarsi in citta', da circa 50 anni gli Harari ogni sera si appostano alle 19,00 urlando e chiamando a gran voce le iene. Arrivate tutte in fila una alla volta si avvicinano per prendere una striscia di carne, l' ho fatto anche io e vi posso assicurare che nemmeno il cane piu' addestrato e' talmente mite e delicato nel mangiare. Ho intervistato Edom, uno degli uomini che ogni sera da' da mangiare a queste iene: "lo faceva gia' mio nonno, ed anche suo nonno prima di lui, ora questo rito e' diventato un' attrazione turistica, infatti ci facciamo dare un contributo per andare dal macellaio e comprare un po' di carne, io ormai faccio questo di lavoro." C' e' mai stato qualcuno morso da una iena? O qualche situazione di pericolo? "Da che ne ho memoria mai, ho sentito di un uomo morso 3 anni fa, ma non l'ho mai visto con i miei occhi, in quel caso forse la iena era stata provocata, sfamiamo ogni sera le iene cosi' che non vengano a cercare cibo in citta', ora ci conoscono e per questo aspettano pazienti il loro turno" Edom mi invita a provare e cosi' avvolgo una striscia di manzo attorno ad un bastoncino ed una iena, una delle 8 in fila, si avvicina per prendere la carne delicatamente, l' uomo poi si mette il bastoncino di legno in bocca con la striscia di manzo penzolante ed in una sorta di bacio sfama una delle sue iene preferite. Presto, appena ne avro' la possibilita', postero' il video di questi strambi animali. Lasciate le strade principali e spostandomi tra i 368 vicoli di Harar trovo pero' la fame e la poverta' piu' nera, portata sempre con orgoglio e sorriso. I bianchi o i faranji (stranieri) vengono spesso inseguiti dai bambini per le strade per raccattare qualche soldo, escluse le case tradizionali degli Harari, ormai adibite a musei per gruppi di turisti di passaggio, le case con i tetti di lamiera riflettono la situazione della maggior parte della gente, all' interno non si trova nulla, un sacco da caffe' che contiene dei vestiti di tutta la famiglia, pavimento in terra battuta, delle stuioie come letto e qualche bacinella per lavarsi e per mangiare. Come spesso accade pero' tutto questo viene ignorato dalla maggior parte dei viaggiatori interessati a qualche scatto fugace, gli anziani guardano con tristezza i ragazzini che chiedono soldi per strada, l' orgoglio di questa gente che ha tenuto una resistenza memorabile contro ogni tipo di colonizzatore straniero si scontra fortemente con la nuova moda di procacciare denaro dei piu' giovani, pratica che sta ai viaggiatori scoraggiare rispondendo con cortesia ma senza mai abbandonarsi a gesti di carita' troppo facili in cambio di qualche fotografia. Come mi ha detto un anziano ad Addis Abeba: " l' aiuto di cui questi paesi hanno bisogno e' quello di imparare a non aver bisogno di aiuto." Domani mi spostero' verso Jijiga, da dove in qualche modo provero' ad entrare in Somaliland. Al prossimo contatto, da ovunque voi leggiate. Angelo Calianno Cosa vuoi che sia per te il mare,
una splendida distesa azzurra da guardare, un sollievo per il troppo caldo. Cosa vuoi che sia per me il mare, un oceano da attraversare? Una distesa nella quale c'è il rischio di morire... Pensi sia un gioco? Pensi lo attraverserei se non fosse necessario? Se quello che lasci è peggio che affrontar la morte, non tenteresti? Allora non tenteresti? Non tenti. Dove credi di andare? Non sai scegliere, perché non ne hai bisogno. Dove vai? Dove credi di andare? Le tue domande vengono capite nella tua lingua? Non c'è nessun posto dove hai bisogno di andare. Perché abbiamo già perso tutto, perché ti faccio schifo e mi tocchi con i guanti, Ma io non sono te? Sono stato te, e la tua barca non era più piccola di questa. Sarai me, e la tua barca non sarà più grande di questa Volta pure la testa dall'altra parte e continua a nuotare, noi non ti daremo fastidio,. perché i nostri cadaveri non fanno rumore, inghiottiti nelle acque nere non si fanno sentire. Spariscono così come dovrebbero arrivare, in silenzio. Pensi sia un gioco? cosa vuoi che sia il mare, un posto dove giocare, un posto dove vorrei giocare. Io amo il mare. E cosa vuoi che sia per te un pezzo di terra, un posto dove amare, un posto da sporcare, da inquinare... Cosa vuoi che sia per me un pezzo di terra, la salvezza la fine di un viaggio, arrivare vivi alla fine di un viaggio.. Ma fa freddo stanotte, fa freddo già da due notti Ma cosa sarà mai il freddo quando hai una casa, dei vestiti, un abbraccio. Non ti ho chiesto nulla, ma non basta, perché tu non vuoi nemmeno la mia esistenza, non vuoi credere alla mia razza, perché ormai hai perso la tua. Eppure, un giorno mi ritroverai, prima o poi tuffandoti nel mare mi troverai a galleggiare. Galleggerò con quelle che erano le mie speranze, avrò la bocca aperta a ricordarti come si cerca di afferrare l 'ultimo respiro, avrò gli occhi spalancati dalla paura, avrai gli occhi spalancati dalla paura. E allora nessuno mi potrà vedere, perché non ci sarà un posto dove la gente mi potrà visitare, nessuno mi vedrà, tranne te che non hai ancora capito, che cos'è per noi il mare. Questa poesia fu dedicata ai 13 morti naufragati sulle coste del Ragusano, e ai 70 morti durante il naufragio verso le coste di Lampedusa del 2009. Dopo 6 anni a centinaia, a migliaia continuano a morire senza nessuno che muova un dito se non nella parte finale di un viaggio verso l' impossibile, per per quelli che non vogliono ancora capire che i problemi vanno affrontati alla loro origine. Dedicato a tutti quelli che han perso la vita cercando di raggiungere l' Italia. Dedicato a chi sopravvive malgrado le botte, malgrado gli insulti, malgrado il mondo, malgrado il mare... Angelo Calianno |
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