LETTERE DAL MEDIORIENTE
Un giorno seduto davanti alla porta di Damasco a Gerusalemme un uomo chiamato Mahmoud, che avevo conosciuto qualche mese prima, si sedette accanto a me:
“allora, hai trovato la verità? ” Mi chiese.
“Ho trovato vittime innocenti, ho trovato rabbia, ho trovato la follia e nascosto in tutto questo anche la speranza. Ma la verità, quella credo non esista più” , risposi.
“Allora potrai dire di aver cominciato a capire davvero il medio oriente, ” replicò l’anziano signore prima di allontanarsi.
Una volta arrivati a Gerusalemme si fa molta fatica ad immaginare questo luogo come teatro di violenze con autobus e pizzerie che esplodono per gli attacchi suicidi palestinesi.
Migliaia di turisti affollano i quartieri ed i luoghi sacri della città vecchia, i giovanissimi soldati di leva israeliani che nelle ore libere passeggiano per i negozi del centro vestiti da teen-ager americani, I-pod nelle orecchie ed M16 semiautomatico a tracolla.
Eppure, ragazzi come loro solo qualche anno fa hanno sentito il rumore delle esplosioni, alcuni di loro a pochi km di distanza presidiano i check-point, i posti di blocco dalle attese interminabili tra Israele e Palestina.
Cercavo storie, testimonianze della gente che vive il conflitto fuori dai negoziati internazionali, fuori dalle organizzazioni non governative.
Genitori a cui erano morti i figli, figli a cui erano morti i genitori, persone che convivono con la costante paura di bombardamenti, la gente che rimane quando noi ce ne andiamo…
“ Cerca la casa di Ibrahim”, mi dissero, “ è il posto ideale per cominciare a capire le cose”.
Ibrahim è un signore sulla sessantina sempre vestito di bianco e con la kefiah bianca e rossa sulla testa, da anni si occupa di spiegare la questione palestinese agli stati vicini.
Viaggiava Ibrahim, si recava nelle ambasciate ed alle manifestazioni di mezzo mondo per portare la sua voce, quella di uomo cresciuto nella guerra dell’ invasione Israeliana e nella violenta risposta palestinese.
Il risultato del suo impegno è stato il divieto assoluto da parte del governo Israeliano di prendere qualsiasi aereo, ma non datosi per vinto Ibrahim aprì la sua casa come Guest House.
La casa di Ibrahim è famosa per avere sempre un letto per i viaggiatori e qualcosa da mangiare, ed invece di un prezzo fisso, si lascia quel che si può in una cassetta delle offerte per il mantenimento della casa.
Ma non solo, questa luogo ospita incontri tra ebrei, palestinesi, ortodossi e cristiani, gente di qualsiasi razza, credo o religione, disposta ad ascoltare storie opposte alla propria.
Gruppi come i ragazzi di Yad Beyad, ragazzi israeliani e palestinesi che da 3 anni si incontrano ogni mese per raccontare le loro storie.
Rifugiati incontrano i nipoti dei soldati che occuparono questo paese nel 1948; israeliani che hanno presidiato luoghi a rischio in Palestina riescono qui per la prima volta a comunicare con “l’altro”per, come dice il motto di Yad Beyad, vedere “l’altra faccia del mostro”
Ma non tutti i luoghi della Palestina sono così aperti al dialogo.
Le frange estreme sia da una parte che dall’altra sono la parte più complicata di queste terre, la massima espressione dell’ odio reciproco la si avverte e la si vede sui tetti presidiati dai soldati nelle strade di Hebron, città a pochi km da Betlemme.
Il centro di Hebron è occupato dai Coloni o i “settlers” come vengono chiamati qui.
Un gruppo di 700 ebrei che vive all’interno di mura e recinzioni metalliche nel centro della città.
Alla fine del mercato dirigendosi verso la grande Moschea, c’è una lunga rete metallica che copre le teste di chi ci cammina sotto (vedi foto in alto)
“Serve per proteggersi” mi dice un ragazzo che passa di lì.
“ I settlers dalle loro finestre gettano immondizia, sedie, bottiglie, tutto sulle nostre teste, molti dei negozi han dovuto chiudere perché la gente non riusciva più a vivere così.
I negozi nel mercato dei polli e del pesce sono stati chiusi definitivamente la scorsa estate con la fiamma ossidrica, erano troppo vicini alle case dei settlers.
I coloni sono 700 oggi, per ognuno di loro il governo israeliano ha mandato 4 soldati a proteggerli, le nostre strade sono invase da più di 3000 soldati, hanno occupato la nostra terra, ma so che bruceranno all’inferno per quello che stanno facendo.”
Mohammed mi porta in casa sua, mi mostra un’ala della costruzione con le finestre sbarrate e del nero di fuliggine intorno agli archi:
“ qui i soldati due anni fa gettarono delle molotov dalle finestre, mio padre si avvicinò per spegnere il fuoco e venne colpito da un proiettile in testa, io da un altro vicino al cuore, il dottore ha detto che non posso rimuoverlo, altrimenti morirei.
Da allora abbiamo chiuso queste finestre e non le abbiamo più riaperte.
Bombardano le nostre case, sparano contro le nostre cisterne d’acqua, come possiamo non combatterli?
Lo facciamo con quello che abbiamo, se abbiamo delle pietre le lanciamo, se abbiamo un’arma allora dobbiamo usarla” .
In molti dei negozi ed in alcune case ci sono poster e bandiere raffiguranti volti di giovani ragazzi.
Quei volti appartengono ad i ragazzi saltati in aria in missioni suicide, ingaggiati da Hamas per la nuova guerra santa.
Ma i ragazzi ebrei, quelli nati in Israele negli anni 80 e 90, quelli che non hanno mai puntato un’arma contro qualcuno, come vivono questa situazione?
Un ragazzo Israeliano di nome Amir mi disse una volta:
“ credo sia ingiusto quello che la mia nazione ha fatto 62 anni fa, posso chiedere scusa per loro, ma non posso essere responsabile di quello che accade, dei bombardamenti o delle rappresaglie dei soldati, io voglio solo fare il mio lavoro, vivere la mia vita.
L’odio verso gli ebrei è grande, ma non possono ritenerci tutti responsabili degli errori del nostro governo, e come se io odiassi i tedeschi considerandoli tutti colpevoli dell’olocausto”.
Jonas è un ragazzo di appena 20 anni, è un soldato qui ad Hebron, ha il viso bianco senza un filo di barba, i suoi nonni emigrarono ad Haifa in Israele dalla Polonia dopo la guerra.
Jonas ha l’espressione di chi vorrebbe trovarsi in qualsiasi altro posto tranne che questo:
“io non sapevo nulla del conflitto, a dire la verità so poco di storia, ma dobbiamo servire il nostro paese per 3 anni, altrimenti finiamo in galera.
Mi piaceva fare il militare ad Haifa, ho fatto molte amicizie ed il fine settimana potevo tornare a casa dai miei genitori che vivono vicino al mare.
Poi mi hanno mandato qui per 4 mesi, dobbiamo controllare tutti quelli che si avvicinano, dobbiamo chiudere i negozi e “ripulire” le strade dai Palestinesi quando i coloni escono per andare in sinagoga,
I superiori mi hanno detto che potrebbe esserci un’esplosione da un momento all’altro e di non fidarsi di nessuno”
Hebron purtroppo non è l’unica città ad avere i “settlment” presenti nel proprio territorio.
Nablus è un altro simbolo della strenua resistenza contro Israele, una delle città più antiche della Palestina, una delle più belle, ma anche qui la tranquillità è solo una parvenza.
In una casa di pietra dai muri spessi, un signore di nome Fadi mi raccontò quello che accadeva: “ogni notte qui a Nablus i coloni sulle montagne intorno mandano i soldati per catturare qualcuno che credono essere connesso con Hamas.
Alcuni collaborazionisti palestinesi segnalano per denaro dei nomi agli israeliani, allora molti vengono arrestati senza prove. Nessuna notte può essere tranquilla”.
Le parole di Fadi furono profetiche perché quella stessa notte, i soldati israeliani fecero irruzione nella casa arrestandolo e portandolo via per interrogarlo, di lui non ho più avuto notizie.
Nonostante Gaza, “la porta dell’inferno” come la chiamano alcuni palestinesi, nonostante le condizioni in cui vivono i rifugiati con il 68% di disoccupazione, tanti sono gli uomini e le donne israeliani e palestinesi che lottano per la pace,
Lo fanno lontano dai riflettori, lo fanno parlando ai loro vicini, ai loro familiari, cercando di avvicinarsi il più possibile alle ragioni altrui.
Se dovessi regalare a qualcuno un’immagine di questo luogo, sceglierei una scena vista ad Hebron qualche mese fa.
Un bambino palestinese ormai abituato ai soldati ed ai fucili nei suoi vicoli, si avvicinò ad un posto di blocco correndo verso un soldato.
Si avvicinò per toccare quell’uniforme, forse per mettere alla prova il coraggio di bambino.
Il serissimo soldato piegò le labbra verso un grande sorriso, forse il primo da quando era lì.
Diede la mano a quel bambino perché forse, non tutti i mostri sono come ce li hanno raccontati, forse questo dovremmo scrivere, nelle nostre lettere dal medio oriente.
Angelo Calianno
Foto e testo sono di eclusiva proprietà dell' autore, nè è possibile la divulgazione sui proprii supporti informatici o cartacei tramite autorizzazione.
“allora, hai trovato la verità? ” Mi chiese.
“Ho trovato vittime innocenti, ho trovato rabbia, ho trovato la follia e nascosto in tutto questo anche la speranza. Ma la verità, quella credo non esista più” , risposi.
“Allora potrai dire di aver cominciato a capire davvero il medio oriente, ” replicò l’anziano signore prima di allontanarsi.
Una volta arrivati a Gerusalemme si fa molta fatica ad immaginare questo luogo come teatro di violenze con autobus e pizzerie che esplodono per gli attacchi suicidi palestinesi.
Migliaia di turisti affollano i quartieri ed i luoghi sacri della città vecchia, i giovanissimi soldati di leva israeliani che nelle ore libere passeggiano per i negozi del centro vestiti da teen-ager americani, I-pod nelle orecchie ed M16 semiautomatico a tracolla.
Eppure, ragazzi come loro solo qualche anno fa hanno sentito il rumore delle esplosioni, alcuni di loro a pochi km di distanza presidiano i check-point, i posti di blocco dalle attese interminabili tra Israele e Palestina.
Cercavo storie, testimonianze della gente che vive il conflitto fuori dai negoziati internazionali, fuori dalle organizzazioni non governative.
Genitori a cui erano morti i figli, figli a cui erano morti i genitori, persone che convivono con la costante paura di bombardamenti, la gente che rimane quando noi ce ne andiamo…
“ Cerca la casa di Ibrahim”, mi dissero, “ è il posto ideale per cominciare a capire le cose”.
Ibrahim è un signore sulla sessantina sempre vestito di bianco e con la kefiah bianca e rossa sulla testa, da anni si occupa di spiegare la questione palestinese agli stati vicini.
Viaggiava Ibrahim, si recava nelle ambasciate ed alle manifestazioni di mezzo mondo per portare la sua voce, quella di uomo cresciuto nella guerra dell’ invasione Israeliana e nella violenta risposta palestinese.
Il risultato del suo impegno è stato il divieto assoluto da parte del governo Israeliano di prendere qualsiasi aereo, ma non datosi per vinto Ibrahim aprì la sua casa come Guest House.
La casa di Ibrahim è famosa per avere sempre un letto per i viaggiatori e qualcosa da mangiare, ed invece di un prezzo fisso, si lascia quel che si può in una cassetta delle offerte per il mantenimento della casa.
Ma non solo, questa luogo ospita incontri tra ebrei, palestinesi, ortodossi e cristiani, gente di qualsiasi razza, credo o religione, disposta ad ascoltare storie opposte alla propria.
Gruppi come i ragazzi di Yad Beyad, ragazzi israeliani e palestinesi che da 3 anni si incontrano ogni mese per raccontare le loro storie.
Rifugiati incontrano i nipoti dei soldati che occuparono questo paese nel 1948; israeliani che hanno presidiato luoghi a rischio in Palestina riescono qui per la prima volta a comunicare con “l’altro”per, come dice il motto di Yad Beyad, vedere “l’altra faccia del mostro”
Ma non tutti i luoghi della Palestina sono così aperti al dialogo.
Le frange estreme sia da una parte che dall’altra sono la parte più complicata di queste terre, la massima espressione dell’ odio reciproco la si avverte e la si vede sui tetti presidiati dai soldati nelle strade di Hebron, città a pochi km da Betlemme.
Il centro di Hebron è occupato dai Coloni o i “settlers” come vengono chiamati qui.
Un gruppo di 700 ebrei che vive all’interno di mura e recinzioni metalliche nel centro della città.
Alla fine del mercato dirigendosi verso la grande Moschea, c’è una lunga rete metallica che copre le teste di chi ci cammina sotto (vedi foto in alto)
“Serve per proteggersi” mi dice un ragazzo che passa di lì.
“ I settlers dalle loro finestre gettano immondizia, sedie, bottiglie, tutto sulle nostre teste, molti dei negozi han dovuto chiudere perché la gente non riusciva più a vivere così.
I negozi nel mercato dei polli e del pesce sono stati chiusi definitivamente la scorsa estate con la fiamma ossidrica, erano troppo vicini alle case dei settlers.
I coloni sono 700 oggi, per ognuno di loro il governo israeliano ha mandato 4 soldati a proteggerli, le nostre strade sono invase da più di 3000 soldati, hanno occupato la nostra terra, ma so che bruceranno all’inferno per quello che stanno facendo.”
Mohammed mi porta in casa sua, mi mostra un’ala della costruzione con le finestre sbarrate e del nero di fuliggine intorno agli archi:
“ qui i soldati due anni fa gettarono delle molotov dalle finestre, mio padre si avvicinò per spegnere il fuoco e venne colpito da un proiettile in testa, io da un altro vicino al cuore, il dottore ha detto che non posso rimuoverlo, altrimenti morirei.
Da allora abbiamo chiuso queste finestre e non le abbiamo più riaperte.
Bombardano le nostre case, sparano contro le nostre cisterne d’acqua, come possiamo non combatterli?
Lo facciamo con quello che abbiamo, se abbiamo delle pietre le lanciamo, se abbiamo un’arma allora dobbiamo usarla” .
In molti dei negozi ed in alcune case ci sono poster e bandiere raffiguranti volti di giovani ragazzi.
Quei volti appartengono ad i ragazzi saltati in aria in missioni suicide, ingaggiati da Hamas per la nuova guerra santa.
Ma i ragazzi ebrei, quelli nati in Israele negli anni 80 e 90, quelli che non hanno mai puntato un’arma contro qualcuno, come vivono questa situazione?
Un ragazzo Israeliano di nome Amir mi disse una volta:
“ credo sia ingiusto quello che la mia nazione ha fatto 62 anni fa, posso chiedere scusa per loro, ma non posso essere responsabile di quello che accade, dei bombardamenti o delle rappresaglie dei soldati, io voglio solo fare il mio lavoro, vivere la mia vita.
L’odio verso gli ebrei è grande, ma non possono ritenerci tutti responsabili degli errori del nostro governo, e come se io odiassi i tedeschi considerandoli tutti colpevoli dell’olocausto”.
Jonas è un ragazzo di appena 20 anni, è un soldato qui ad Hebron, ha il viso bianco senza un filo di barba, i suoi nonni emigrarono ad Haifa in Israele dalla Polonia dopo la guerra.
Jonas ha l’espressione di chi vorrebbe trovarsi in qualsiasi altro posto tranne che questo:
“io non sapevo nulla del conflitto, a dire la verità so poco di storia, ma dobbiamo servire il nostro paese per 3 anni, altrimenti finiamo in galera.
Mi piaceva fare il militare ad Haifa, ho fatto molte amicizie ed il fine settimana potevo tornare a casa dai miei genitori che vivono vicino al mare.
Poi mi hanno mandato qui per 4 mesi, dobbiamo controllare tutti quelli che si avvicinano, dobbiamo chiudere i negozi e “ripulire” le strade dai Palestinesi quando i coloni escono per andare in sinagoga,
I superiori mi hanno detto che potrebbe esserci un’esplosione da un momento all’altro e di non fidarsi di nessuno”
Hebron purtroppo non è l’unica città ad avere i “settlment” presenti nel proprio territorio.
Nablus è un altro simbolo della strenua resistenza contro Israele, una delle città più antiche della Palestina, una delle più belle, ma anche qui la tranquillità è solo una parvenza.
In una casa di pietra dai muri spessi, un signore di nome Fadi mi raccontò quello che accadeva: “ogni notte qui a Nablus i coloni sulle montagne intorno mandano i soldati per catturare qualcuno che credono essere connesso con Hamas.
Alcuni collaborazionisti palestinesi segnalano per denaro dei nomi agli israeliani, allora molti vengono arrestati senza prove. Nessuna notte può essere tranquilla”.
Le parole di Fadi furono profetiche perché quella stessa notte, i soldati israeliani fecero irruzione nella casa arrestandolo e portandolo via per interrogarlo, di lui non ho più avuto notizie.
Nonostante Gaza, “la porta dell’inferno” come la chiamano alcuni palestinesi, nonostante le condizioni in cui vivono i rifugiati con il 68% di disoccupazione, tanti sono gli uomini e le donne israeliani e palestinesi che lottano per la pace,
Lo fanno lontano dai riflettori, lo fanno parlando ai loro vicini, ai loro familiari, cercando di avvicinarsi il più possibile alle ragioni altrui.
Se dovessi regalare a qualcuno un’immagine di questo luogo, sceglierei una scena vista ad Hebron qualche mese fa.
Un bambino palestinese ormai abituato ai soldati ed ai fucili nei suoi vicoli, si avvicinò ad un posto di blocco correndo verso un soldato.
Si avvicinò per toccare quell’uniforme, forse per mettere alla prova il coraggio di bambino.
Il serissimo soldato piegò le labbra verso un grande sorriso, forse il primo da quando era lì.
Diede la mano a quel bambino perché forse, non tutti i mostri sono come ce li hanno raccontati, forse questo dovremmo scrivere, nelle nostre lettere dal medio oriente.
Angelo Calianno
Foto e testo sono di eclusiva proprietà dell' autore, nè è possibile la divulgazione sui proprii supporti informatici o cartacei tramite autorizzazione.
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