DHEISHA, LA VOCE DEI RIFUGIATI
(Articolo scritto e pubblicato per www.vociglobali.it)
(nella foto Murales nel campo di Dheisha)
La definizione ufficiale della parola “rifugiato” recita:
“chi è fuggito o è stato espulso a causa di discriminazioni politiche, religiose o razziali dal proprio Paese e trova ospitalità in un Paese straniero”.
Qui in Palestina la definizione assume però connotati complessi e pieni di tensione.
Il campo di Dheisha, con i suoi 13 000 abitanti, è il più grande campo di rifugiati della Palestina; questo agglomerato di case costruite senza un senso preciso con vicoli stretti, immondizia, murales di protesta e bambini che giocano nella polvere, è stato dato in concessione dall’Onu per 99 anni; siamo oggi al 62esimo di quei 99.
Il campo però non è come lo si immagina o meglio non lo è secondo i nostri stereotipi, cioè una tendopoli covo di criminali e borseggiatori; niente di tutto questo.
Dheisha ospita due ostelli molto puliti, attrezzati e con prezzi molto convenienti, una fortissima squadra di basket e molte attività dedicate a far studiare bambini e giovani di questo luogo che altrimenti non avrebbero nessuna possibilità di cambiare la propria condizione.
centro Al-Feneiq (la Fenice in arabo) è uno splendido esempio di quello che con volontà fanno questi uomini, donne e bambini. Distrutta 3 volte dai bulldozer e dalle bombe israeliane, La Fenice è sempre risorta dalla sue ceneri, da qui il nome Al-Phoenix. Naji Owda. Foto di A.Calianno - licenza CC.
Naji Owdah, responsabile del centro, mi accoglie con un grande sorriso nascosto dai lunghissimi baffi:
Immagino che la tua barba ti abbia creato problemi negli aeroporti e ai posti di controllo, fanno lo stesso con i miei baffi, la gente si fida troppo delle apparenze.
mi dice Naji.
Il centro della Fenice è enorme, ha un teatro, due scuole e l’unico spazio verde per i bambini nel campo. Il centro porta avanti progetti di studio per 2000 bambini e permette attraverso raccolte fondi di poter mandare all’università alcuni giovani del campo, università altrimenti costosissime qui, circa 1000 euro all’anno.
Davanti a un caffè e non so quante sigarette Naji mi racconta la sua storia:
La mia famiglia viveva in una zona dell’attuale Tel Aviv, io ovviamente non posso andarci ma so che al suo posto c’è una zona residenziale e sopra alcuni cimiteri sono stati costruiti dei bar.
Facciamo molta fatica qui, ma con orgoglio posso dire che non abbiamo mai preso un soldo dalle ONG occidentali che molto spesso sono troppo legate alla politica: cerchiamo fondi privatamente e riusciamo, grazie alle donazioni, a far studiare molti ragazzi sia qui che all’estero, ragazzi che forse un giorno lasceranno questo posto per diventare qualcuno.
“Come consideri i negoziati che gli Stati Uniti cercano di mandare avanti tra Israele e Palestina?” Gli chiedo.
Propaganda, solo propaganda, gli Stati Uniti hanno paura che l’Iran intervenga a supporto di Hamas causando così la terza guerra mondiale, e poi il governo Palestinese non ci ha mai aiutato davvero.
Il 68% degli abitanti di Dheisha è disoccupato, molti volontari sotto la direzione di alcuni formatori palestinesi vengono qui ad insegnare inglese, informatica, arte, cultura e progetti multimediali; la diffusione di documentari sulla situazione palestinese è il prossimo passo che Naji e la sua squadra vogliono portare avanti.
Chiedo ad Ashraf, un giovane coordinatore delle attività del campo, cosa farebbe se improvvisamente fosse libero di viaggiare per lo stato di Israele e Palestina senza più vincoli:
Andrei dritto lì da dove proviene la mia famiglia,
“Ma non esiste più” gli dico, “quei villaggi ora sono diventati altro, non c’è traccia di quello che era 62 anni fa.”
Non importa, io vorrei avere la libertà di scegliere dove andare.
“Credi che Palestina e Israele diventeranno mai uno Stato unico?”
E’ il nostro sogno, il sogno più grande di noi tutti, ma non succederà mai.
“Cosa pensi della situazione a Gaza?”
Gaza è la porta dell’inferno, nessuno sa davvero cosa succede lì dentro.
E’ una giornata di sole splendente nel campo di Dheisha, le grandi sale ristorante e da ballo del centro La Fenice verranno usate tra poco per un matrimonio, qui la gente può far festa pagando un terzo di quanto pagherebbe in un ristorante normale, questa è un’altra fonte di sostegno per la gente di questo luogo. Molte case sono pericolanti e scalcinate, la manutenzione è inesistente, spesso in inverno la corrente salta raggelando gli abitanti di questi palazzoni, mentre d’estate si soffre la siccità.
Spesso mi chiedo cosa mandi avanti questa gente, cosa impedisca loro di lasciare ogni speranza in un luogo dove sarebbe più facile perderla che coltivarla. Entrando in una scuola elementare del campo, guardando i sorrisi dei bambini che non sanno niente di guerra, che vogliono ascoltare le storie di avventure in luoghi senza confini mi do una risposta; guardando i bambini giocare capisco cosa anima l’impegno senza sosta di Naji, Ashraf e delle persone che hanno votato la propria vita all’aiuto per gli altri.
Capisco che non importa quanto si può soffrire o aver sofferto, tutto può essere riscattato donando un futuro migliore ai propri figli o ai propri nipoti e regalare a chi ha ancora tempo una cosa che non dovrebbe mai essere negata a nessuno: una possibilità.
Angelo Calianno
La definizione ufficiale della parola “rifugiato” recita:
“chi è fuggito o è stato espulso a causa di discriminazioni politiche, religiose o razziali dal proprio Paese e trova ospitalità in un Paese straniero”.
Qui in Palestina la definizione assume però connotati complessi e pieni di tensione.
Il campo di Dheisha, con i suoi 13 000 abitanti, è il più grande campo di rifugiati della Palestina; questo agglomerato di case costruite senza un senso preciso con vicoli stretti, immondizia, murales di protesta e bambini che giocano nella polvere, è stato dato in concessione dall’Onu per 99 anni; siamo oggi al 62esimo di quei 99.
Il campo però non è come lo si immagina o meglio non lo è secondo i nostri stereotipi, cioè una tendopoli covo di criminali e borseggiatori; niente di tutto questo.
Dheisha ospita due ostelli molto puliti, attrezzati e con prezzi molto convenienti, una fortissima squadra di basket e molte attività dedicate a far studiare bambini e giovani di questo luogo che altrimenti non avrebbero nessuna possibilità di cambiare la propria condizione.
centro Al-Feneiq (la Fenice in arabo) è uno splendido esempio di quello che con volontà fanno questi uomini, donne e bambini. Distrutta 3 volte dai bulldozer e dalle bombe israeliane, La Fenice è sempre risorta dalla sue ceneri, da qui il nome Al-Phoenix. Naji Owda. Foto di A.Calianno - licenza CC.
Naji Owdah, responsabile del centro, mi accoglie con un grande sorriso nascosto dai lunghissimi baffi:
Immagino che la tua barba ti abbia creato problemi negli aeroporti e ai posti di controllo, fanno lo stesso con i miei baffi, la gente si fida troppo delle apparenze.
mi dice Naji.
Il centro della Fenice è enorme, ha un teatro, due scuole e l’unico spazio verde per i bambini nel campo. Il centro porta avanti progetti di studio per 2000 bambini e permette attraverso raccolte fondi di poter mandare all’università alcuni giovani del campo, università altrimenti costosissime qui, circa 1000 euro all’anno.
Davanti a un caffè e non so quante sigarette Naji mi racconta la sua storia:
La mia famiglia viveva in una zona dell’attuale Tel Aviv, io ovviamente non posso andarci ma so che al suo posto c’è una zona residenziale e sopra alcuni cimiteri sono stati costruiti dei bar.
Facciamo molta fatica qui, ma con orgoglio posso dire che non abbiamo mai preso un soldo dalle ONG occidentali che molto spesso sono troppo legate alla politica: cerchiamo fondi privatamente e riusciamo, grazie alle donazioni, a far studiare molti ragazzi sia qui che all’estero, ragazzi che forse un giorno lasceranno questo posto per diventare qualcuno.
“Come consideri i negoziati che gli Stati Uniti cercano di mandare avanti tra Israele e Palestina?” Gli chiedo.
Propaganda, solo propaganda, gli Stati Uniti hanno paura che l’Iran intervenga a supporto di Hamas causando così la terza guerra mondiale, e poi il governo Palestinese non ci ha mai aiutato davvero.
Il 68% degli abitanti di Dheisha è disoccupato, molti volontari sotto la direzione di alcuni formatori palestinesi vengono qui ad insegnare inglese, informatica, arte, cultura e progetti multimediali; la diffusione di documentari sulla situazione palestinese è il prossimo passo che Naji e la sua squadra vogliono portare avanti.
Chiedo ad Ashraf, un giovane coordinatore delle attività del campo, cosa farebbe se improvvisamente fosse libero di viaggiare per lo stato di Israele e Palestina senza più vincoli:
Andrei dritto lì da dove proviene la mia famiglia,
“Ma non esiste più” gli dico, “quei villaggi ora sono diventati altro, non c’è traccia di quello che era 62 anni fa.”
Non importa, io vorrei avere la libertà di scegliere dove andare.
“Credi che Palestina e Israele diventeranno mai uno Stato unico?”
E’ il nostro sogno, il sogno più grande di noi tutti, ma non succederà mai.
“Cosa pensi della situazione a Gaza?”
Gaza è la porta dell’inferno, nessuno sa davvero cosa succede lì dentro.
E’ una giornata di sole splendente nel campo di Dheisha, le grandi sale ristorante e da ballo del centro La Fenice verranno usate tra poco per un matrimonio, qui la gente può far festa pagando un terzo di quanto pagherebbe in un ristorante normale, questa è un’altra fonte di sostegno per la gente di questo luogo. Molte case sono pericolanti e scalcinate, la manutenzione è inesistente, spesso in inverno la corrente salta raggelando gli abitanti di questi palazzoni, mentre d’estate si soffre la siccità.
Spesso mi chiedo cosa mandi avanti questa gente, cosa impedisca loro di lasciare ogni speranza in un luogo dove sarebbe più facile perderla che coltivarla. Entrando in una scuola elementare del campo, guardando i sorrisi dei bambini che non sanno niente di guerra, che vogliono ascoltare le storie di avventure in luoghi senza confini mi do una risposta; guardando i bambini giocare capisco cosa anima l’impegno senza sosta di Naji, Ashraf e delle persone che hanno votato la propria vita all’aiuto per gli altri.
Capisco che non importa quanto si può soffrire o aver sofferto, tutto può essere riscattato donando un futuro migliore ai propri figli o ai propri nipoti e regalare a chi ha ancora tempo una cosa che non dovrebbe mai essere negata a nessuno: una possibilità.
Angelo Calianno